IL PESO DEGLI INTANGIBILI SULLA VALORIZZAZIONE DELLE AZIENDE

In una “società della conoscenza” come quella in cui viviamo oggi, qual è il peso degli asset intangibili nel processo di valorizzazione di un’azienda? Come è possibile che un gruppo automobilistico del pari di Stellantis, tra i primi produttori di auto al mondo, capitalizzi attualmente un valore di circa 53 miliardi di euro, mentre Tesla, dopo le ingenti perdite registrate a inizio anno, ha una capitalizzazione di 633 miliardi di USD (circa 596 mld di euro)?

Rivolgendo l’analisi ad un altro settore, come si giustifica che Wal-Mart, una società con 50 anni di storia e quasi 12 mila negozi in 27 paesi e siti e-commerce in 11 paesi, esponga un valore complessivo di 383 miliardi di USD contro i 981 miliardi di capitalizzazione di Amazon?

Si può senz’altro supporre che imprese con business model innovativi e in perenne evoluzione scontino dal mercato aspettative di crescita maggiori, a loro volta alimentate dalla complessità insita nella valutazione degli asset intangibili ovvero di quel “capitale invisibile” e non riscontrabile nei prospetti di bilancio di cui le società tecnologiche sono in maggior misura accreditate.

IL “CAPITALE INVISIBILE” 

L’insieme dei beni immateriali (cosiddetti “intagibles”) costituisce la parte di patrimonio aziendale non rappresentato da attività fisiche o finanziarie.

Riferendoci ad essi come al complesso di conoscenze e competenze presenti in azienda ovvero ai valori costituiti dai marchi di fabbrica, dai brevetti e dalle invenzioni, dai processi produttivi e commerciali, dalla fiducia dei clienti, dalle hard e soft skills di manager e dipendenti, possiamo considerarlo una sorta di capitale invisibile ma essenziale alla produzione di valore da parte dell’impresa.

Quando questi valori non trovano riscontro nelle scritture contabili e non emergono, quindi, in bilancio si può avere difficoltà a stimare il valore reale di una società e può accadere che si registrino discrepanze rilevanti tra patrimonio netto e valore di mercato.

In altri casi, il valore viene incorporato nei goodwill generatisi con operazioni di M&A e in generale in situazioni di discontinuità.

In ogni, caso è intuibile come l’elemento tecnologico, che ha caratterizzato lo sviluppo di molte imprese dall’avvento di internet in poi, abbia amplificato la dimensione del fenomeno, soprattutto nei casi di business model che, proprio grazie alla tecnologia, hanno potenzialità di espansione e scalabilità a costi molto bassi.

Per inquadrare la portata estensiva di internet basti pensare che 25 anni fa i suoi utenti erano all’incirca 10 milioni; oggi la popolazione che vi accede è intorno ai 5 miliardi di persone e il tasso di penetrazione aumenta giornalmente.

D’altra parte, per cogliere l’impatto delle nuove tecnologie su determinati asset intangibili, si pensi ad esempio allo sviluppo del brand di molte aziende che, anche all’interno dei medesimi settori, hanno avuto evoluzioni diverse, con riscontri di valore anche molto differenti nel tempo. I dati ci dicono che esiste una correlazione molto forte tra valore del brand e capitalizzazione di borsa e soprattutto che tale relazione è più che proporzionale.

La crescita dei marchi e degli intangibili in generale hanno quindi un effetto leva sulla valorizzazione, come si evince anche dal rapporto tra asset materiali e ricavi: società come Apple, Google, Facebook e Coca-Cola producono incrementi di ricavi estremamente significativi a fronte di investimenti minimi in attività fisse ovvero in beni fisici.

 

LA SCOMMESSA DELLA CRESCITA 

Tutto quanto sopra evidenziato, crea un contesto per cui gli investitori sono disposti a riporre maggiore aspettativa sulla capacità di creare valore insita nei beni intangibili di quanto ne possa derivare da altre evidenze economiche.

La fiducia nel tasso di crescita proprio delle imprese dotate di ingenti capitali immateriali ha un impatto immediato sulla valorizzazione delle stesse, che si può dedurre direttamente dalle formule impiegate dalle prassi di valutazione più diffuse.

Se consideriamo, infatti, che il valore di mercato di un’azienda è funzione dei suoi utili moltiplicati per il tasso di crescita e rapportati al costo del capitale proprio, ovvero:

MV = u * (1 + g)/(Ke-g) 

Dove:

MV= market value: valore complessivo delle azioni;
u= utili di esercizio
g = coefficiente di crescita aziendale;
Ke = costo del capitale proprio

si intuisce come a un incremento del tasso di crescita corrisponda un aumento del valore di mercato.

Dalla differenza, poi, tra il market value e il book value, ovvero il patrimonio netto, si evince il valore latente attribuito agli asset immateriali e non registrato dalle evidenze contabili.

Analizzando il classico rapporto “prezzo su utili” (P/E), si registrano differenze significative all’interno dello stesso settore che, stando alla formula sopra riportata, potrebbero essere giustificate solo da un costo del capitale diverso tra un’azienda e l’altra.

Potendo facilmente escludere un fenomeno di tale portata, solo aspettative differenti sul tasso di crescita possono rappresentare un motivo valido per multipli disomogenei.

LA FINANZA DI IMPRESA 

Per molto tempo, la finanza di impresa ha basato le proprie valutazioni sulla quantificazione del valore patrimoniale, costituito principalmente dal complesso di beni materiali presenti in azienda.

Su questi presupposti sono stati sviluppati metodi valutativi piuttosto affidabili e accettati dalla generalità degli esperti. Ma il peso sempre crescente acquisito dai beni intangibili, in particolare all’interno di imprese “knowledge intensive”, ha fatto virare la prassi metodologica prima verso metodi misti, che tenessero conto anche dei risultati

economici futuri, e poi sempre più verso metodi finanziari, che si fondano sul principio che il valore di un’azienda sia espresso dall’attualizzazione dei flussi di cassa che essa sarà in grado di produrre in futuro.

In altre circostanze a prendere piede sono stati i metodi basati sui multipli, la cui valenza comparativa rischia di essere messa in crisi da aziende con tassi di crescita molto diversi tra loro e patrimoni di beni immateriali difformi per cui non esistono benchmark affidabili, lasciandosi così sfuggire l’essenziale unicità di alcune aziende e la loro traiettoria d crescita futura.

La domanda da porsi, allora, è se non solo i mercati ma soprattutto i metodi di valutazione a disposizione di periti ed esperti siano capaci di cogliere la dimensione intangibile del processo di creazione del valore, che sta alla base della crescita aziendale. Tanto più quando si devono approcciare business o modelli di business nuovi, per cui mancano dati storici ponderabili o tendenze consolidate nel tempo.

Non solo le regole contabili non aiutano a registrare ceri valori latenti, ma per alcune aziende, quali ad esempio le start up innovative, ad alto contenuto tecnologico, l’effetto determinato da investimenti in R&D o nella messa a punto di tecnologie, brevetti e know-how, è oggettivamente difficile da quantificare, anche ricorrendo a metodi basati sulla proiezione di flussi e crescita nel breve/medio periodo.

Pertanto, la sfida diventa quella di ponderare bene tutti gli elementi in gioco riportando l’essenza valoriale ai suoi fondamentali, minimizzando il più possibile effetti distorsivi e distopici come quelli prodotti, ad esempio, dal focalizzarsi su grandezze più facilmente individuabili come il tasso di crescita dei ricavi o dei clienti/utenti.

Lo sforzo è anche quello di entrare sempre nella specificità di ogni azienda, studiando a fondo il business model e sezionando bene i processi, così da cogliere dove e come si produce il valore e renderlo meglio quantificabile e proiettabile nel tempo.

Anche l’abitudine ad affidarsi a metodi a volte “grossolani” non deve prevalere, come al contempo quella di assumere acriticamente i tassi di crescita economica di settore, dimenticando la sostanziale unicità e straordinarietà di alcune esperienze imprenditoriali, cosa che il nome di “Unicorni”, attribuito alle start-up che hanno superato il miliardo di dollari di valutazione, ci dovrebbe ricordare.

CONCLUSIONI

I dati di mercato ci dicono che esistono discrepanze molto forti tra valori contabili e capitalizzazioni di borsa soprattutto per le imprese ad alto contenuto tecnologico e con tassi di crescita elevati.

Questo fa pensare che la componente immateriale presente in azienda e costituita da un patrimonio intangibile di brand awareness, competenze manageriali, brevetti, know-how e in generale da quanto non riscontrabile nelle risultanze di bilancio, determini il plusvalore di cui le stime di mercato accreditano l’azienda stessa.

Al contempo, questo tipo di imprese hanno fatto registrare spesso correzioni di valore molto forti e in tempi piuttosto brevi, soprattutto in concomitanza con la pubblicazione dei dati commerciali e finanziari, testimoniando così una certa volatilità di cui bisogna tenere conto.

In particolare, allorché certe valutazioni non siano affidate ai mercati ma ad esperti valutatori.

Questi ultimi dovranno probabilmente fare lo sforzo di stimare autonomamente i singoli asset immateriali facendo ricorso alle prassi più aggiornate, oltre che ai dati statistici e di mercato disponibili.

È possibile farlo, ad esempio, per il brand, come ci dice l’esperienza recente di rivalutazione dei marchi spinta in Italia dalle leggi appositamente emanate.

Oppure per i brevetti come attestano le metodologie sperimentate per la determinazione del c.d. patent box.